Il titolo è volutamente provocatorio. Si parla in quest’articolo di un problema che viene alla luce quando un autore fantasy, generalmente anglosassone, viene tradotto nella nostra amata lingua.
Egli, o ella, ha per forza di cose bisogno di un intermediario, dicasi traduttore, che non si limiti alla semplice traduzione parola per parola del testo, ma che medi le differenze sintattiche, concettuali e spesso culturali tra le due lingue, come ad esempio quando occorre passare il mattarello sulla diretta e lapidaria sintassi american style, per renderla più articolata e complicata come piace a noi.
Capita però sempre più spesso che il traduttore, di sua iniziativa, prenda delle decisioni che discostano il testo dall’originale, mosso da motivazioni di volta in volta sensate, non condivisibili, totalmente idiote o, in alcuni casi che vedremo, criminali da un punto di vista puramente letterario.
Il problema inverso non si pone quasi mai, dato che la ristretta cerchia degli autori fantasy italiani ha una buona conoscenza dell’inglese e può quindi ‘vigilare’ affinché questo non accada. O anche perché generalmente il mercato mondiale si domanda chi diavolo siamo noi scrittori fantasy italiani.
Spesso il suddetto traduttore incappa nell’errore di considerare il lettore un perfetto idiota che ha bisogno di essere illuminato su tutto, inserendo elementi estranei, distorcendo nomi e situazioni contingenti.
Vediamo due grandi a confronto.
La prima versione italiana de ‘Il Signore degli Anelli‘, nel 1967, ha avuto una traduzione accorta e ben fatta. Se Pipino fosse rimasto Pippin probabilmente non ci saremmo goduti di meno la storia, ma Bilbo Baggins non è stato tradotto con ‘Bilbo borsaiolo’ e non sono stati inseriti elementi esterni alla trama. Certamente, il traduttore della prima edizione si è riservato il diritto di amputare una v in Samwise, misteriosamente diventato un italianissimo Samvise.
Ma erano gli anni 60 del novecento, e il fenomeno ‘dell’italianizzazione’ appare nel suo complesso se non condivisibile, almeno comprensibile: la lingua inglese non era poi così diffusa in Italia, anzi, la stessa lingua italiana non era poi così diffusa in Italia, quindi una simile traduzione, in quel contesto, appare opportuna.
Diverso è il caso de Il Signore degli Anelli dei nostri tempi, ossia ‘A Song of Ice and Fire’, volgarmente detto ‘Cronache del Ghiaccio e del Fuoco’, di Giorgetto Martin.
Gli stessi titoli italiani della saga rappresentano un caso eclatante di esercizio abusivo della professione di scrittore, dal momento che il primo ‘A Game of Thrones’ ossia ‘Un Gioco di Troni’ è un titolo talmente azzeccato ed evocativo – si immagina subito una battaglia di scacchi tra regnanti e aspiranti tali – che non avrebbe dovuto essere sostituito per alcuna ragione.
Ma si sa, il lettore italiano è un dummy e aveva in quel caso bisogno di essere illuminato dal traduttore con l’evocantissimo ‘Il Trono di Spade’, traduzione sbagliata dello stesso oggetto al quale si riferisce, dal momento che la versione originale dello stesso è semplicemente ‘The Iron Throne’, ossia ‘Il Trono di Ferro’, che l’autore spiega con pacata serenità essere composto da spade fuse insieme, per ricordare a chi regna quanto sia scomodo e pericoloso il potere.
Ma il caso più eclatante e citato è quello, a inizio saga, del cervo che diventa miracolosamente un unicorno per volere del traduttore. Mi sembra quasi di essere all’interno della sua testa, quando ha pensato: ‘Cervo? Perché cervo? Un unicorno è molto più fantasy di un cervo!’.
Saprete certo che si tratta di una delle scene iniziali (non contiene spoiler): un Metalupo morto viene ritrovato con le corna di un cervo incastrate nella gola, segno che è stato da questo ucciso. La scena è simbolica, è semplicemente una premonizione di quello che accadrà più avanti nel corso della saga. Allegorie, premonizioni, metafore; è la parte nobile della letteratura fantasy. Inserire un elemento simile a quel punto significa non aver capito proprio cosa si sta leggendo, non solo traducendo.
Questo viene seguito da ulteriori abusi, come la figura chiave del romanzo, ossia ‘The Hand of the King’ – traducibile tranquillamente con ‘La Mano del Re’ – che diventa per miracolo ‘Il primo cavaliere’, giusto per chiamare in causa re Artù. Perché scegliere proprio il sostantivo ‘cavaliere’, che indica di per sé un rapporto di sudditanza? La Mano del Re agisce in nome del re, parla in nome del re, fa in nome del re, ergo, è la mano del re.
Come dicevamo, è solo il primo di una lunga serie di scelte infelici: ‘Little finger’ ossia ‘mignolo’ diventa ‘Dito corto’; l’altisonante ‘Kingslayer’ diventa ‘Sterminatore di re’, al plurale, togliendo il valore storico dell’epiteto; ‘The Wall’, il Muro che potrebbe avere ettolitri di riferimenti storico-politici, dal muro di Berlino al vallo di Adriano, diventa improvvisamente ‘La Barriera’; ‘Shaggydog’, il nome affettuoso (cane arruffato) che un ragazzino di tre-quattro anni dà al proprio metalupo, dal pessimo carattere, diventa ‘Cagnaccio’, dispregiativo.
Anche i nomi dei luoghi sarebbe stato meglio in determinati casi lasciarli come gli originali. Vada per ‘Approdo del Re’ al posto di King’s Landing, ma Winterfell, letteralmente ‘l’inverno cadde’ si sposava perfettamente con il motto di casa Stark, ossia ‘L’inverno sta arrivando’ come a sottolineare la ciclicità del tempo, dell’esistenza e delle stagioni: l’inverno cadde, l’inverno sta tornando. Concetto totalmente perso con ‘Grande Inverno’, un termine a di poco da Fantaghirò. E lo scrive uno che adorava Fantaghirò.
Nonostante le infinite segnalazioni pervenute, la casa editrice continua a non voler corriggere codesta traduzione fatta a membro di segugio.
Di cosa è sintomo questo? Come sostenuto in precedenza, il fantasy anglosassone gode di stima e di una consistente fetta di mercato perché non è associato unicamente al fiabesco, alle stucchevoli scene di matrimoni elfici nelle foreste o, appunto, agli unicorni, ma spesso alla morte, ai ‘bad omen’ – ce ne sono diversi anche nell’abusato ‘Il Signore degli Anelli’ – e, recentemente, si è rivelato persino in grado di affrontare in maniera valida i temi della droga, del degrado sociale e politico, persino dell’inquinamento del pianeta (vedere alla voce Sapkowski, che peraltro non è neanche anglosassone).
È una questione di apertura mentale. Tralasciando che i miei stessi colleghi italiani dovrebbero di tanto in tanto premere il piede sull’acceleratore, e uscire dalla riserva indiana delle scuole di magia per scrivere qualcosa di più ardito, se non siamo neanche in grado di tradurre in maniera decente un romanzo che ci piove da oltreoceano come manna dal cielo temo rimarremo ancora a lungo confinati nei Teletubbies a cavallo e col mantello.
O alle fortezze ‘piuttosto massicce’ della Troisi.
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