Tratto dal romanzo di J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit: La desolazione di Smaug prosegue il racconto cominciato con Il Viaggio Inaspettato.
Continua l’avventura di Bilbo Baggings (Martin Freeman), dello stregone Gandalf (Ian McKellen) e del gruppo dei 13 nani, guidati da Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), erede legittimo del Regno di Erebor, cercando di riconquistare il tesoro appartenente ai nani, ora in mano al drago Smaug (Benedict Cumberbatch).
Se nel primo capitolo de Lo Hobbit questo pensiero andava scemando, con questa seconda parte è completamente svanito. Adesso la domanda da porsi è: come sarebbe stata la storia compressa in un unico film? Sicuramente l’intera trama sarebbe stata troppo stretta nei tempi cinematografici canonici, e l’approfondimento dei personaggi sarebbe stato molto più limitato, il che avrebbe fatto di questa nuova esperienza nella Terra di Mezzo un banale e autoconclusivo film di accompagnamento a Il Signore degli Anelli. Jackson non vuole fare de Lo Hobbit una prequel della saga di lancio, ma vuole rendere autonoma la nuova trilogia , stravolgendo la nostra idea sul carattere di alcuni dei personaggi che hanno preso parte alle precedenti/successive avventure di Frodo e Co.
È facile riassumere in poche parole questo secondo episodio. Lo Hobbit: La desolazione di Smaug è il capitolo centrale, e come ogni capitolo centrale al il compito di riempire, approfondendo alcune questioni, aggiungendo nuove domande (risolvendone poche) e moltiplicando i personaggi.
Vengono perciò scoperti nuovi ruoli, che complicano la trama con altri quesiti aggiungendo nuovi punti di vista.
Alcuni di questi fanno parte della storia originale di Tolkien, mentre altri sono stati inventati completamente da Jackson, per arricchire la “breve” storia. Tuttavia se nel primo caso non a tutti è stato concesso il giusto spazio, come ad esempio al mutapelle Beorn, per alcune new entry ne è stato concesso fin troppo.
È però grazie a questo che questo episodio centrale funziona: l’introduzione di Legolas e Tauriel o di altri personaggi ed eventi amplia lo scenario e approfondisce degli aspetti essenziali per comprendere pienamente il successivo Il Signore degli Anelli.
Certamente non farà piacere ai puristi ma, lo sappiamo, le edizioni cinematografiche devono spesso fare i conti con problematiche diverse da quelle letterarie, confrontandosi con un pubblico diverso e molto più ampio. È perciò impossibile portare sul grande schermo un’opera letteraria come Lo Hobbit senza influenze o integrazioni esterne. E, aggiungo, meno male!
Grazie al maestoso lavoro di Jackson, che ha saputo introdurre e inventare occasioni per descrivere al meglio il mondo di Tolkien, i fan più affezionati potranno vedere episodi ed esplorare legami con la letteratura tolkieniana che altrimenti non sarebbero stati presenti.
Il film comincia con un avvenimento precedente al primo capitolo, senza quindi sprecare tempo prezioso con flashback già visti e realizzando al tempo stesso un ottimo collegamento tra i due episodi.
Dove i flashback sono necessari, Jackson li racconta con scene inedite, da punti di vista differenti. Questi quindi finiscono per non essere qualcosa di già visto, riassumendo e arricchendo con dettagli ciò che è necessario ricordare, niente di più, niente di meno.
A differenza del primo capitolo, in La desolazione di Smaug si perde l’idea del viaggio. Questo è dovuto sicuramente alla massiccia presenza di scene d’azione, che sostituiscono le innumerevoli inquadrature a volo d’uccello delle spettacolari location che caratterizzano il primo film (non che anche nel secondo non ce ne siano).
La prima impressione è che la “compagnia” si sposti nella Terra di Mezzo davvero pochissimo ma, alla fine dei conti, non è proprio così: dall’inquietante Bosco Atro dove ha a che fare con il cambia pelle Beorn (Mikael Persbrandt) e con i pericolosi aracnidi, all’incontro con gli Elfi dei Boschi capeggiati da Tharunduil (Lee Pace), dalla sequenza geniale della fuga nei barili, all’incontro con l’arciere Bard (Luke Evans), dall’arrivo a Ponte Lagolungo al confronto con il drago Smaug nella Montagna Solitaria, il gruppo di eroi percorre davvero tanta strada. Esso si muove semplicemente più lentamente e forse è proprio questo che fa di alcune scene dei snervanti punti morti, incoraggiati sicuramente dalla presenza di scene “da fiato sospeso” più che veri e propri nodi chiave della storia.
Ma è giusto che sia così: il compito de La desolazione di Smaug è quello di infittire la storia e gonfiare la schiera di personaggi e sotto trame da raccontare.
E, come è successo per Le Due Torri, la trama principale finisce per prendere strade diverse, alcune delle quali sono fondamentali per creare un collegamento con la prima trilogia, successiva per gli avvenimenti, tolkieniana. Lo Hobbit soddisfa le aspettative dei fan: racconta il romanzo dal quale è tratto e funge da vero e proprio preludio a Il Signore degli Anelli.
Molta importanza è stata data alle dinamiche tra i personaggi, ai cambiamenti che questi subiscono durante il loro cammino. È evidente il mutamento di Bilbo, che deve vedersela non solo con le nuove sfide che incontra sul suo cammino, ma anche con il malvagio potere dell’Unico Anello. Esso lo logora da dentro e lui se ne accorge. Tuttavia non riesce a resistere alla sua influenza, e lo vediamo perciò più frustato e tenebroso.
Non è sicuramente lo stesso Bilbo che ha lasciato la Contea: viene sottolineato da Gandalf, ma questo, grazie a Jackson e all’ottima interpretazione di Freeman, non era sicuramente sfuggito allo spettatore.
Nella stessa situazione si trova Thorin, anch’esso abbagliato dal potere della Archengemma e dell’oro dei suoi antenati. Per la sua oscura e incontentabile brama, in diverse occasioni finisce per trascurare la sua compagnia, che lo porta più volte a ragionare sulle vere motivazioni dell’impresa.
Inoltre, in questo nuovo capitolo vengono approfondite le storie e i caratteri di alcuni personaggi, scoperte le gerarchie, i collegamenti con gli antenati.
Un aspetto inedito viene dato agli Elfi, che non sono più visti come creature eteree della natura ma esseri più terreni. È l’umanità che caratterizza gli Elfi de Lo Hobbit, che si rispecchia nelle cose comuni, nelle affezioni come nell’empietà e nella maliziosità del genere umano.
Personaggio chiave della storia è il drago Smaug, interpretato in lingua originale da Benedict Cumberbatch e doppiato da Luca Ward in italiano.
Lo scopriamo nel primo capitolo come un essere leggendario, malvagio, senza ragione. In La desolazione di Smaug lo vediamo in tutta la sua interezza: egli si mostra come la creatura descritta nel romanzo, un mix di intelligenza, astuzia e pericolosità.
Grazie ai straordinari effetti visivi (la prima sputata di fuoco mi ha letteralmente bruciato gli occhi, ormai abituati all’oscurità) e all’interpretazione dell’attore, che ne ha dato anche i movimenti, egli ci appare proprio così.
Personalmente avrei però preferito che venisse gestito in modo diverso, facendone scaturire il male puro e non solo l’aspetto del cane da guardia.
Se nel primo episodio Bilbo si è trovato ad interagire con Gollum, adesso lo troviamo alle prese con Smaug. Seppure i dialoghi siano affascinanti, non riescono però a rendere giustizia al drago. Forse qualche frase in meno e qualche scena in più l’avrebbero salvato. Il doppiaggio in italiano, inoltre, non rende come la versione in lingua originale, facendo perdere a Smaug tutto il lato più “spaventoso”.
Tuttavia per il drago c’è ancora spazio nell’ultimo capitolo, e sono sicuro che saprà approfittarne per farsi odiare, o amare.
Anche con le sue piccole note dolenti, Lo Hobbit: La desolazione di Smaug offre uno spettacolo senza precedenti. La direzione impeccabile di Peter Jackson riesce a tenere lo spettatore incollato al grande schermo per tutto il film.
Le poche situazioni scontate vengono vanificate da successivi sbalorditivi colpi di scena.
La camera è sempre in movimento, proponendo l’azione da tutte le angolazioni: essa non si limita a descrivere, ma è parte della storia, è un intruso nella scena, essa finisce per avere un vero e proprio ruolo, caratterizzato da genialate ed esperimenti davvero ben riusciti del regista: è un Jackson che cresce, che osa proporre al pubblico qualcosa di diverso, un’esperienza spettacolare non solo da punto di vista visivo.
Inutile stare qui a discutere degli altri aspetti del film, della fotografia ancora una volta maestrale, dei costumi e trucchi curatissimi, delle scenografie mozzafiato, delle musiche azzeccatissime nella colonna sonora di Howard Shore, questa volta senza canzoni da pelle d’oca ma con un evidente avvicinamento ai temi de Il Signore degli Anelli. Inutile parlare della cura nei dettagli con la qualche il comparto tecnico ha saputo ancora una volta omaggiare il maestro Tolkien.
Purtroppo non posso commentare la versione in HFR 3D con cui il film è stato nativamente girato perchè ho avuto il piacere di visionarlo soltanto in versione 2D, ma in rete se ne parla davvero molto bene.
Tutti gli episodi della trilogia de Lo Hobbit sono stati girati insieme, come fosse un unico film. Purtroppo a noi toccherà aspettare un altro anno per conoscere il finale della storia, con il terzo capitolo che finalmente scioglierà i nodi e risponderà alle domande lasciate in sospeso.
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