Andare a vedere Il Regno dei Sogni e della Follia è come scoprire che Babbo Natale non esiste. Il fabbricante di sogni per eccellenza, Hayao Miyazaki, non corrisponde all’immagine di vecchietto canuto e bonario che si è formata nelle menti degli spettatori occidentali innamoratisi di Ponyo, Howl, Kiki e Chihiro: le sue risposte sono intrise di cinismo, disillusione e pessimismo.
Chi è andato al cinema sperando di conoscere i segreti delle opere del maestro di animazione, la filosofia che le anima, è uscito dalla sala con la coda tra le gambe. I film e i loro significati più profondi sono rimasti avvolti nel mistero delle enigmatiche parole del loro creatore.
“Perché Jiji non parla dopo che Kiki ha riavuto la magia?” chiede la voce narrante.
“Perché non era il momento di parlare” risponde Miyazaki sapendo di deludere il suo interlocutore ma, poi, sempre bilanciando la severità con una sonora risata.
Grazie al lavoro di Sunada Mami abbiamo, però, il privilegio di entrare in una fucina di talenti e di meraviglie, lo Studio Ghibli, di spiarne i ritmi, i dubbi, le abitudini. Come l’ora di ginnastica in cui tutti i disegnatori posano la matita per sgranchirsi braccia e gambe in una sorta di balletto corale. Lo sguardo acuto della telecamera ha saputo carpire momenti esilaranti, come la scelta di un doppiatore non professionista per il protagonista di “Si alza il vento”, e attimi profondamente intimi, come la celata confessione di Goro Miyazaki di non sentirsi l’erede più adatto a mandare avanti la baracca.
A restare sullo sfondo è l’altra mente geniale dello studio: Takahata Isao, raccontato dall’ironia pungente del suo rivale e dal produttore Suzuki Toshio, alle prese con i tempi estremamente lunghi dell’autore de “La principessa splendente”.
Il documentario non esaurisce la sete di conoscenza dei fan di Miyazaki ma offre il privilegio di scorgerlo nella quotidianità, di conoscerlo al di là dell’immagine mitizzata di Demiurgo di mondi fantastici. Ne viene fuori il ritratto di un uomo burbero ma estremamente loquace, caustico ma amante del buon umore, lavoratore indefesso che pone fine alla sua carriera pur sentendo di aver ancora da dire, infelice perché “chi fa film non può che essere infelice”, innamorato delle sue creature e profondamente convinto che esse abbiano vita propria e che il suo compito sia soltanto quello di guidarne i passi.
“Il Regno dei Sogni e della Follia” è un’esperienza da vivere con devozione e apertura mentale: lo spettatore occidentale non vi troverà il linguaggio che è abituato a comprendere ma, se saprà spogliarsi dei suoi schemi, non potrà non riconoscere di aver vissuto qualcosa di unico e prezioso.
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